Pubblicato in Cosmopolis, VI, 2/2011
La maggior parte delle critiche mosse contro i mass media e la società di massa durante il corso del ventesimo secolo sono state, come ben si sa, critiche rivolte contro la passività, l’anomia e l’alienazione del fruitore. Tali effetti venivano imputati in primo luogo al diagramma stesso del flusso di comunicazione, alla sua forma broadcast, uno-molti (o meglio, pochi-molti, considerato che gli emittenti sono comunque sempre un gruppo, per quanto ristretto, di professionisti organizzati). I mass media erano allora, come si espresse Jean Baudrillard, “parola senza risposta”. In tal senso, la radice comune delle pratiche e delle tecniche di propaganda (la fabbricazione politica della verità che può raggiungere livelli totalitari) e pubblicità (la fabbricazione economica di miti, sive racconti, di consumo e godimento) è stata più volte rimarcata (senza dimenticare, peraltro, che l’origine della propaganda è religiosa, e che la forma gerundiva del termine contiene una precisa istanza di dover-essere). Così ad esempio, per i situazionisti, le immagini della comunicazione mediata davano vita a una forma sociale che essi chiamarono “spettacolo”, un regime di separatezza dell’immagine dalla vita quotidiana e di conseguente espropriazione dell’esperienza vissuta: le immagini spettacolari, per così dire supra-visibilizzate, si diceva, costituivano un nuovo stadio del capitale, in cui ogni rapporto sociale era definitivamente sussunto al dominio.
Dall’altro lato, la ricerca di Michel Foucault sui processi di razionalità disciplinare, il panottismo e il potere della norma ci ha mostrato l’esistenza di tutto un insieme di pratiche di controllo degli individui che transitavano su un piano diverso rispetto a quello della supra-visibilizzazione spettacolare. Foucault è dunque l’autore a cui dobbiamo la preziosa intuizione che, accanto alla diade spettacolo-passività, esiste un’altra diade fondamentale, legata a una apparentemente più prosaica ma non meno potente aritmetica delle piccole visibilità. Laddove il potere spettacolare è espressivo ed eclatante (e in questo senso arcaico, il prototipo dello spettacolo pubblico essendo il supplizio), il potere disciplinare è un potere minuzioso, noioso, grigio, ma anch’esso fondamentalmente imperniato su un regime specifico di visibilità. Se consideriamo ad esempio la famosa pratica della “ispezione” disciplinare, o dell’”esame”, vediamo chiaramente come in essa la soggezione al potere sia ottenuta attraverso una visibilizzazione consapevole (auto-cosciente o, se si vuole, riflessiva) del proprio corpo e della propria condotta. Si ha dunque una soggezione attraverso quella che Foucault chiamò una “visibilità obbligatoria”: il corpo del sorvegliato si trova preso in un gioco di visibilità che, oltre a funzionare attraverso la costante ripartizione che la norma consente di operare tra normalità e anormalità, richiede necessariamente l’introiezione sia di quella norma “normante” sia del quadro di visibilità entro cui essa trova applicazione. In altri termini, e per riassumere, alla diade spettacolo-passività si affianca quella disciplina-collaborazione.
Credo sia possibile affermare che, in linea generale, nel ventesimo secolo lo Stato ha in vari gradi assorbito sia la macchina spettacolare sia quella disciplinare. Naturalmente, questa nozione di “assorbimento” è straordinariamente ambigua, poiché si potrebbe altrettanto bene parlare – come precisamente Foucault ha fatto – di “infiltrazione” della tecnologia disciplinare (oltre che di una più vasta tecnologia governamentale) all’interno dello stato. Altri termini, poi, quali affiancamento, triangolazione e così via potrebbero altresì essere evocati. Di sicuro, a causa di tale contiguità tra i regimi di visibilità inerenti ai diversi diagrammi sopra descritti, lo stato del ventesimo secolo ha funzionato in modo molto diverso rispetto a quello dei secoli precedenti. In particolare, esso sembra essersi configurato come, al tempo stesso, un propagandista e uno spione: da un lato, l’abbagliante visibilità di un compatto e il più possibile omogeneo flusso di comunicazione in cui sommergere i destinatari, dall’altro, la minuziosa visibilità del certosino lavoro di sorveglianza, rilevazione e acquisizione di informazioni sui soggetti assoggettati. Inoltre, sempre più evidente a partire dalla metà del ventesimo secolo è il fatto che tali pratiche hanno riguardato non solo lo stato, entrando bensì a far parte di un insieme di strategie e tattiche utilizzate da un’ampia gamma di agenzie commerciali. Si consideri, a puro titolo illustrativo, l’ampio settore noto come customer relationship management, in cui la gestione dei “profili cliente” viene condotta sulla base di un’acquisizione sistematica di dati riguardanti tutti i comportamenti ritenuti economicamente rilevanti dei soggetti. Nel lessico aziendalista, il termine tecnico con cui vengono indicati questi soggetti è target. Queste forme di sorveglianza minuziosa acquisiscono il loro risvolto economicamente interessante nel momento in cui è possibile, sulla base dei cospicui database creati, mettere in atto tecniche di adaptive cross-merchandising, note anche come marketing associativo o recommendation engine – termini complicati che corrispondono però ad un’esperienza relativamente comune per tutti gli acquirenti di negozi online, in cui le nostre possibili preferenze vengono costantemente previste e sollecitate.
Quando cerchiamo di comprendere i nuovi media, e il tipo di società in cui essi si inseriscono (prima ancora di avventurarsi in tesi deterministe su cosa causi o abbia causato cos’altro), i due regimi di visibilità spettacolo-passività e disciplina-collaborazione restano, per molti aspetti, pertinenti. Tuttavia, essi mostrano anche una serie di limiti, e in questo senso mi sembra che abbiamo bisogno di ulteriori nuovi concetti interpretativi ed esplicativi. La constatazione più elementare, ma pur necessaria, è che il diagramma di comunicazione broadcast è affiancato da un diagramma di tipo networked (si noti il volutamente timido “affiancato”). La rete è la morfologia comunicativa sociale, su cui, nel corso degli ultimi vent’anni, tante analisi di illustri e meno illustri teorici si sono spese. La constatazione fragorosa, che ha dominato per così dire gli anni Novanta, mi sembra si possa riassumere come segue: laddove i vecchi media erano “parola senza risposta”, i nuovi media sono invece collaborativi per natura. Così, molti osservatori hanno notato con entusiasmo che la maggior parte dei fruitori della rete erano anche produttori di contenuto, e persino pensatori radicali come Antonio Negri e Michael Hardt sono stati sedotti, nei primi anni del nuovo secolo, dalla metafora della rete, al punto da descriverla come la migliore approssimazione a quella “moltitudine” che essi erigevano a nuovo soggetto rivoluzionario all’interno della formazione imperiale contemporanea. L’entusiasmo si è in seguito necessariamente temperato, per non dire raffreddato, in molti, di fronte alla constatazione che l’orizzontalità dei nodi in rete e la produzione diffusa di contenuto non hanno necessariamente avuto gli attesi o auspicati effetti liberatori da passività, anomia e alienazione del fruitore.
A me sembra che una descrizione realistica della nuova situazione contemporanea richieda di prendere seriamente in considerazione il fenomeno che si potrebbe chiamare di “ritorno delle folle”. Il grande dibattito sulle folle che si svolse nell’ultima parte del diciannovesimo secolo rappresentò un tentativo di far fronte, sia a livello epistemologico sia a livello governamentale, a quella nuova situazione sociale, spaziale e materiale che era la situazione urbana metropolitana. In quel contesto storico assistemmo infatti all’istituzionalizzazione di tutta una serie di saperi specifici intorno alle folle (criminologia, antropologia, psicologia, medicina sociale, studi organizzativi, etc.) che si tradussero in breve tempo in un’altrettanta ampia gamma di pratiche di governo degli spazi urbani in un’epoca di massa (urbanistica, polizia, igiene, taylorismo, logistica, etc.). Oggi, mi pare, ci troviamo di nuovo di fronte al fatto delle folle. Nella mia interpretazione, questo fatto significa né più né meno che confusione. Le folle, in altri termini, sono la figura sociale meno determinata – e per questo motivo, per molti osservatori, più problematica – che possiamo immaginare. Le folle corrispondono a uno stato di pullulare di differenze indifferenziate non ancora categorizzate, ripartite e normalizzate da epistemi e dispositivi specifici. Rispetto alle folle abbiamo dunque un problema di apprensione. Gioco qui volutamente sui due sensi del termine: le folle ci mettono in apprensione perché non riusciamo ad apprenderle, concettualmente e praticamente.
Il lettore, forse reso scettico da questo excursus in termini e concetti antiquati (gran parte del dibattito di fine Ottocento venne infatti condotto, ricordiamolo, all’interno di una temperie culturale impregnata di organicismo, darwinismo sociale e imperialismo), si chiederà perché tornare a utilizzare il concetto di folla per parlare della nostra situazione contemporanea. In effetti, quali sono le nuove folle? Ebbene, io credo che la nozione di folla (una volta svuotata da una serie di falsi assunti e preconcetti) ci possa essere analiticamente molto utile per comprendere l’attuale condizione di estrema abbondanza di dati. Se la situazione di affollamento che tanto colpiva gli osservatori di fine Ottocento era la situazione di affollamento delle strade metropolitane, l’accatastamento dei corpi e l’accumulazione delle impressioni che “intensificava la vita del sistema nervoso dell’individuo” – per ricorrere alla celeberrima espressione di Georg Simmel – oggi i fenomeni di accatastamento, accumulazione e intensificazione si riferiscono in primo agli scenari di dati, i datascapes che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione digitale hanno creato e in cui bene o male ci muoviamo.
Ci troviamo pertanto di fronte a un nuovo di tipo di affollamento, che non ha necessariamente sostituito l’antico, ma che sicuramente vi si aggiunge. In tal senso, quando le nuove folle vengono variamente definite “post-urbane” e “post-umane”, ci troviamo di fronte a categorie sintomatiche, e insieme evidentemente del tutto insoddisfacenti. Le folle di dati, di logs, di posts, di comments, di threads, di messages, di tweets, di feeds, di invites, di torrents, di seeds, di spam e così via, non si presentano come eventi puntuali, ma piuttosto come catene o cascate di eventi, le cui coordinate sono, in prima istanza, tutt’altro che evidenti. Come le folle classiche, queste nuove folle ci pongono di fronte alla constatazione dell’esistenza di un plenum sociale confuso, in cui mancano criteri di visibilità chiari. L’instaurazione e l’affermazione di tali criteri di visibilità, e delle procedure di visibilizzazione ad essi associate – o, se si vuole, di forme di sapere (epistemi) e di pratiche di governo (tecnologie) – costituiscono dunque la posta in gioco essenziale dell’oggi (ricordando inoltre che epistemi e tecnologie sono entrambi essenzialmente delle forme di “misura”: misura come misurazione e misura come disposizione). Di conseguenza, da un punto di vista di riflessione collettiva, ovvero se vogliamo da un punto di vista politico, la questione diventa: che tipo di territori sociali – territori che sono al tempo stesso territori di significato materialmente inscritto (visibilità) e di strumenti socio-tecnici normativamente carichi (misure) – componiamo, siamo in grado di comporre e intendiamo comporre?
Misura delle visibilità: i nuovi media in rete sono interessanti, dal punto di vista della teoria sociale, perché in essi abbiamo potuto seguire, in particolare nel corso dell’ultimo decennio, il sorgere di una vera e propria architettura della visibilità e di una serie di pratiche di misurazione delle visibilità sociali in un campo che inizialmente non presentava alcun criterio predominante o egemonico. Non solo: non vi era, si potrebbe aggiungere, alcuna ragione intrinseca per cui un dato criterio di gerarchizzazione dovesse affermarsi all’interno di una morfologia reticolare. Più specificamente, vorrei sostenere che, nel corso dell’ultimo decennio, nei nuovi media in rete abbiamo assistito al sorgere di un tipo di gerarchizzazione che propongo di chiamare le “visibilità indicizzate”.
Per spiegare che cosa intendo con “indicizzazione delle visibilità”, vorrei riconnettermi alla constatazione iniziale, relativa alle diadi spettacolo-passività e disciplina-collaborazione. Oggi, la questione cruciale non è più quella di riempire tutto lo spazio della visibilità sociale amplificando un unico elemento, come era per le tecniche spettacolari di propaganda, né semplicemente di rilevare e classificare tutti i dettagli di un comportamento individuale, come per le tecniche sorveglianti-disciplinari. Certo, sia la sorveglianza sia la propaganda sono strumenti ancora ampiamente utilizzati, come ho già ricordato. Tuttavia, non mi sembra errato dire che una diversa direzione sia ormai emersa. Quest’ultima ha a che fare con un calcolo vòlto a reperire e disporre delle modalità più efficaci per muoversi all’interno dello scenario sovraccarico, e sovraffollato, di dati. Il nuovo core business, in altre parole, consiste e consisterà sempre più nel quantificare, gerarchizzare e indicizzare le visibilità. In questo senso, l’interesse (e la vera e propria ossessione) che vediamo affermarsi – a livello pratico e teorico – nei confronti della tracciabilità degli elementi può essere interpretato come un interesse (e un’ossessione) per l’indicizzazione delle visibilità.
Il sorgere delle visibilità indicizzate instaura un tipo di visibilità che non è, in senso stretto, né emancipatorio (visibilità come riconoscimento) né oppressivo (visibilità come propaganda e/o disciplina). Piuttosto, ci troviamo di fronte a una curiosa mescolanza di questi due elementi, o persino a una terza forma completamente nuova e probabilmente difficilmente riducibile alle categorie classiche dell’azione politica e sociale. Ad ogni modo, mi sembra chiaro che, a differenza di quanto affermato da molti osservatori nel corso dell’ultimo decennio, la natura “partecipativa” e “collaborativa” dei nuovi media non intrattiene alcuna relazione necessaria con l’emancipazione politica in senso classico, e neppure con altri ingombranti termini della nostra teoria politico-giuridica e sociale quali “legittimazione”, “deliberazione” e così via. Il fatto è che i nuovi media sollecitano costantemente la partecipazione e la collaborazione degli utenti; per la verità, lo fanno in grado tale che essere naif rispetto a questa dimensione partecipativo-collaboratoria potrebbe costarci in breve tempo molto caro.
Se ripensiamo alla teoria sociale di un autore come Gabriel Tarde, il quale, proprio nel periodo del dibattito sulle folle, e come effetto dell’aver preso parte a quel dibattito, ha posto a inizio Novecento le basi per lo studio sociologico della comunicazione mediata, troviamo che al centro delle sue preoccupazioni stava un’attenzione estremamente raffinata rispetto alle correnti, le circolazioni e i movimenti di idee prodotti attraverso le conversazioni e le notizie. A un primo sguardo, viviamo ancora immersi – o finalmente pienamente immersi – in quello scenario tardeano, al punto che alcuni passaggi de L’opinion et la foule (1901) potrebbero davvero suonare come uno studio di fattibilità di Facebook (creato 103 anni dopo). Tuttavia, la mia idea è che un concetto come quello di “conversazione” non sia in realtà veramente adatto a rendere conto di cosa accade nei nuovi media in rete. La rete è un territorio sociale impersonale, la cui capacità di portata è costantemente messa alla prova dal sovraffollamento. Il modello della conversazione ci fornisce un modello simmetrico in cui due parti interagenti cercano di persuadersi vicendevolmente, di propagare le proprie idee e di territorializzarsi eventualmente su credenze e desideri condivisi. Tale modello rinvia, in ultimo, a un regime di visibilità come riconoscimento; nei datascapes contemporanei, invece, abbiamo una situazione costante di accumulo di dati – il cui limite immanente è la saturazione – ma non possiamo mai definitivamente basarci su alcunché in grado di fondare una credenza o un desiderio stabile. Il paesaggio delle nuove folle rimane assolutamente intangibile: qui, di conseguenza, la visibilità ha solo in parte – e forse in parte minoritaria – a che fare con il riconoscimento. Il controllo, come abbiamo visto, ha altresì un suo momento. Ma soprattutto, oltre riconoscimento e controllo, quel che conta è la saturazione, soglia oltre la quale qualsiasi ulteriore elemento diviene completamente inservibile. A differenza delle dinamiche territoriali della conversazione, nel tipo di azione che si svolge in rete non abbiamo in realtà la possibilità di costruire un “potente unisono in cui abbiano libero gioco le differenze individuali”, come si esprimeva Tarde. Il fatto è che, nel momento in cui la visibilità diviene ampiamente disponibile a chiunque, proprio questa sovrabbondanza di visibilità diviene eccessiva e si trasforma in un ostacolo. In questo contesto, ciò che ha veramente valore (e valore economico in particolare) non è più il singolo elemento, ora perfettamente visibile, bensì l’insieme delle procedure di visibilizzazione specifiche ritagliate su un insieme di finalità strategiche.
I termini del dibattito sulle folle a cavallo tra fine diciannovesimo e inizio ventesimo secolo avevano messo in circolazione concetti quali quelli di epidemia psichica, ipnosi, sonnambulismo, contagio e imitazione. La teoria sociale del ventesimo secolo ha cercato di rispondere a questi concetti con quelli, presumibilmente più raffinati, di influenza, interazione, negoziazione, partecipazione e collaborazione. Ora, la gestione delle visibilità in rete mi sembra configuri qualcosa come un nuovo paradigma della “reazione”. Si viene cioè costantemente raggiunti e sollecitati dalle folle di dati, fino all’oltrepassamento, più o meno programmato, di certe “soglie di intensità” o di “attivazione” degli attori, soglie che costituiscono dunque il discriminante tra due o più possibili “decorsi” d’azione. In tal modo, in rete siamo costantemente sollecitati ad entrare a far parte di una serie di “giochi di visibilità” (gli accademici pensino solamente al potere di GScholar, h-index, impact factor & co.).
Tali sollecitazioni e partecipazioni difficilmente possono essere definite come forme coercitive o, viceversa, volontarie. Il volontarismo presuppone l’egemonia e produce una forma di piacere a partecipare; la coercizione viene applicata in risposta al dissenso e tende a produrre dolore o altre forme di afflizione. Queste due polarità costituiscono certamente anche oggi delle possibilità permanenti nella gestione del campo delle visibilità, possibilità che non sono scomparse e che, al contrario, possono sempre attivarsi. Tuttavia, in numerosi contesti quotidiani che costituiscono la maggior parte della nostra vita in rete, la circolazione delle visibilità di siti, soggetti, fenomeni ed eventi sociali procede attraverso un paradigma reattivo che non è né volontaristico né coercitivo, le cui componenti essenziali sono semplici pratiche quali il “sollecitare,” il “ricevere” e il “passare”. A livello aggregato, torno a rimarcare, tutta questa reattività generalizzata degli utenti è irriducibile a un modello conversazionale così come a un modello delle credenze. Certamente, comprendere appieno cosa sia in gioco nelle nuove formazioni di folla in rete travalica di gran lunga le ambizioni di questa breve riflessione; ma essa non sarà forse stata del tutto inutile se ci consentirà se non altro di fissare la seguente constatazione: nel contesto del paradigma reattivo, il discorso sui metri e le misure di visibilità in rete è stato chiuso troppo precipitosamente – o, per risparmiarci eufemismi, non c’è affatto stato. Eppure di tale passo indietro verso un discorso più ampio intorno alle misure di visibilità avremmo un gran bisogno: oggi più che mai, dacché siamo finiti in un circolo fatto di coazione a ripetere e profezie che si auto-avverano (e Google certamente è una di tali profezie), in cui l’attività dominante, economicamente e culturalmente, è diventata una pedissequa e senza idee (ancorché certamente collaborativa!) indicizzazione delle visibilità.